MC n. 28, trent'anni fa!
nel marzo 1984, arrivava in edicola il numero 28 di MC.
Un numero particolarmente ricco quello di MC di trent'anni fa, del marzo 1984. In copertina fa bella mostra di sé niente meno che l'Apple Macintosh (l'originale...), i microdrive Sinclair per l'inossidabile ZX Spectrum, addirittura un "potente" word processor per l'indimenticato Commodore 64 e l'ennesima interpretazione di home computer dal poco successo - almeno qui da noi - ovvero il simpaticissimo TRS Micro Color Computer. Per gli amici: MicroCoCò.
Personal Robot
L'editoriale di Nuti ci offre, tanto per cominciare (bene), un salto all'indietro di ben 8 anni. Sommati ai 30 intercorsi dalla stampa di quella pagina, arriviamo a quota 38. Si parla di quanto avveniva nel 1976, quando «c'era chi aveva il coraggio di chiamare personal computer un aggeggio composto da un microprocessore (tipicamente uno 8080) e, diciamo un K (se non 512 byte) di RAM. La "consolle" (quando c'era) era una vecchia telescrivente e tutto il divertimento consisteva nel caricare manualmente per mezzo degli interruttori presenti sul pannello frontale, elementari programmini atti a far colloquiare il "computer" con una vecchia Teletype».
Di lì a poco l'informatica personale, quella vera, sarebbe esplosa nel vero (e più positivo) senso del termine. Prima con l'arrivo del CP/M, primo sistema operativo per microcomputer, e poi con l'arrivo del Basic Microsoft che fece esplodere, letteralmente, le tasche a un certo Bill Gates.
«Corredati di sistema operativo e linguaggio, i primi personal cominciarono ad apparire di qualche utilità: calcolo scientifico, grafica elementare, giochi matematici, le prime modestissime applicazioni domestiche. Prima che il personal iniziasse a moltiplicarsi al ritmo che ci è ormai familiare, dovettero passare ancora un paio di anni. La svolta fu probabilmente costituita dal "visicalc", il tabellone elettronico che modifica automaticamente i valori riportati nelle diverse caselle quando l'utente ne varia una. La strada verso l'office automation da un lato e l'home computer dall'altro era ormai aperta ed oggi tutti hanno le idee chiare sulle diverse fasce applicative».
Viceversa non erano molto chiare, nel 1984, le idee riguardo la robotica personale, alla quale era di fatto dedicato questo editoriale. «A otto anni di distanza - proseguiva Nuti - la storia si sta ripetendo con il personal robot. Non chiedete oggi a cosa può servire; a tutto: va a spasso, chiacchiera, sposta oggetti, e quindi a niente: esattamente come il primo personal computer. Tutto è da scoprire, e, entro qualche anno, verrà sicuramente scoperto».
(stiamo ancora aspettando... :-)
Sinclair QL, il balzo in avanti
Logica evoluzione dei vari ZX fin lì prodotti, l'80, l'81 e il ben più performante Spectrum, il Sinclair QL si stacca nettamente dai suoi predecessori per l'architettura (molto) interna a 32 bit. Dico "molto interna" in quanto il processore utilizzato, il poco noto Motorola 68008 (la desinenza in "otto" non è casuale), offriva sì l'architettura a 32 bit come nei computer più seri presenti e futuri (Macintosh, Amiga, x386, ecc.), ma solo all'interno del chip stesso. Purtroppo l'architettura esterna (bus, memoria, periferiche) rimaneva a 8 bit, per evidenti ragioni di costi con performance complessive ridimensionate di conseguenza.
Ma il suo cuore a 32 bit si faceva sentire e come, a cominciare dalla possibilità di indirizzare grosse quantità di memoria, ben superiore a quella degli altri home, da un minimo di 128 KB fino alla ragguardevole quota di 640 KB, dieci volte superiore a quella offerta dai vari "8-bit" propriamente detti (Pet, Apple II, C64, ecc. ecc.).
Per non parlare poi del fatto che il QL poteva contare su un sistema operativo appositamente creato per lo stesso, "single user multi tasking", in grado cioè «di far girare contemporaneamente più programmi, visualizzando se necessario i risultati in finestre indipendenti sullo schermo».
Fantascienza! (per l'epoca)
Ben arrivato, Macintosh!
Siore e siori, ecco a voi, in prova su MC n. 28, il nuovo nato di casa Apple, ad appena un paio di mesi di distanza dall'annuncio mondiale, in perfetto - già a quei tempi - stile Steve Jobs.
Inizialmente visto come puro e semplice successore del poco diffuso e fortunato Lisa, il Macintosh come (non) tutti sanno è stato il primo computer ampiamente diffuso a utilizzare un'interfaccia basata su icone, finestre e mouse, in un'epoca in cui tutti gli altri computer si comandavano esclusivamente per iscritto, ovvero per il mero tramite di una tastiera e uno schermo a caratteri, ovvero assolutamente non grafico.
«Il sistema - scriveva Giustozzi all'epoca - si propone infatti come uno strumento da scrivania per manager sofferenti di idiosincrasia verso l'informatica "tradizionale". Da notare che tutti i pacchetti prodotti direttamente dalla Apple saranno disponibili nelle varie versioni nazionali, e quindi coi messaggi tradotti nelle varie lingue (tra cui l'italiano)».
Eh, già: anche questa era una succosa novità a quei tempi. I programmi (e lo stesso sistema operativo) parlavano finalmente la nostra lingua, sempre con l'obiettivo di avvicinare quanto più utenti possibile, spaziando ad ampio raggio: dai manager sofferenti di cui sopra, agli studenti, alle casalinghe, ai pensionati, e così via.
«Il Mac - prosegue Giustozzi - è una macchina dalla tecnologia avanzatissima (basta citare l'uso del 68000 come CPU), che utilizza la sua grande sofisticazione soprattutto per semplificare al massimo quella che gli Americani chiamano "user interface", interfaccia con l'utente. Frutto dell'esperienza Lisa, il Mac si propone come uno strumento dall'uso quanto mai spontaneo e naturale per chiunque, e soprattutto per chi non ha nessuna esperienza coi computer. Pertanto tutto è congegnato in modo che l'utente possa agire sulle entità informatiche (ad esempio un file) con gli stessi strumenti logici che adopererebbe sui corrispondenti oggetti tradizionali».
E ancora: «La filosofia Macintosh si può quindi esprimere così: non è l'uomo che deve farsi capire dalla macchina ma la macchina che deve cercare di capire ciò che gli dice l'uomo. E questo, in effetti, avviene col Mac: non è l'utilizzatore che, per comunicare col computer, deve imparare ad usare termini e procedure per lui nuovi e innaturali (quali i comandi di un sistema operativo tradizionale), ma è il computer che, emulando la semantica della comunicazione istintiva umana, capisce ed esegue ciò che l'uomo vuole fare».
(parole sante!)
MicroCoCò! :-)))
In molti, sicuramente non moltissimi, lo ricorderanno non tanto per le sue caratteristiche o per la sua (scarsa) diffusione, quanto per il soprannome simpatico che gli fu presto appioppato: MicroCoCò. Era l'abbreviazione user friendly del suo lunghissimo e complicatissimo nome: Tandy Radio Shack Micro Color Computer MC10.
Adatto soprattutto all'apprendimento, «l'MC10 appartiene sicuramente alla categoria dei computer educati vi, quelli con cui si impara a programmare e ci si abitua al computer per poi passare a qualcosa di definitivo», era basato su uno strano microprocessore 6803 (di produzione Hitachi), poteva contare su "ben" 4 KB di memoria RAM, di cui solo 3 realmente utilizzabili, e 8 KB di ROM contenenti l'onnipresente Microsoft Basic (quello delle tasche esplose di Bill Gates, prima citate), in versione semplificata.
La grafica, viceversa, era quanto di peggio si potesse desiderare a quei tempi. Si poteva contare su una griglia di appena 64x32 punti, «manipolabile tramite 3 soli comandi (SET, RESET e POINT), nonostante gli 8 colori che con il nero diventano 9. Testo e grafica possono esser mischiati senza problemi, contando per il primo un display di 32 caratteri su 16 righe».
Tombola! :-)))
Sinclair ZX Microdrive
Credo si tratta di uno degli oggetti più lungamente attesi e più desiderati dall'esercito di utenti Sinclair, prima dagli utenti dello ZX-80, poi da quelli dello ZX-81, per vedere realmente la luce solo a Spectrum inoltrato, ovvero quasi in contemporanea con l'uscita del prima citato QL che li integrava all'interno del cabinet.
Si trattava di minuscole unità di memorizzazione di massa, a metà strada tra l'economico registratore a cassette e i costosi microfloppy. Le cartucce contenevano al loro interno un nastro magnetico senza fine lungo circa 5 metri, che "viaggiava" a una velocità circa 16 volte superiore a quella di una cassetta audio.
«Le cartucce ci hanno riservato un'emozione notevole. Avevamo già avuto modo di vedere da vicino dei microdrive, ma mai le minicassette; la prima volta che ne abbiamo presa in mano una per osservarla siamo rimasti letteralmente stupefatti dalle dimensioni del nastro, che è alto meno di due millimetri! La nostra reazione, identica a quella di tutte le persone alle quali abbiamo mostrato le cartucce, è stata di esclamare: "ma quest'affare si romperà dopo dieci secondi!". Invece non è cosi, perché il nastro si è dimostrato molto più robusto di quello che sembra».