Vic-20, mon amour!
Chi ha evitato, come molti, «l'ondata Sinclair» probabilmente è perché attendeva, come molti, l'arrivo dell'home promesso da Commodore.
A volerlo fortemente fu il ben noto, quanto irrefrenabile, Jack Tramiel. Da una era parte preoccupato per l’avanzata Apple - ai danni dei meno brillanti PET/CBM - dall’altra temendo l’arrivo dei giapponesi che certo non stavano, nemmeno loro, fermi a guardare.
Il Vic-20 è figlio di alcuni prototipi. Il primo, progettato sulla carta e mai completato/realizzato, si chiamava TOI, acronimo di The Other Intellect (precursore concettuale di Think different?). Il secondo prototipo si chiamava MicroPET, il che la diceva lunga sulla sua natura. A dirla tutta mi sarebbe piaciuta di più questa denominazione, ma ragionarci dopo quaranta e più anni mi sembra del tutto inutile. Andiamo avanti.
VIC, all’origine, stava per Video Interface Chip, ovvero era il nome dell’integrato principale - processore 6502 e memorie RAM/ROM escluse - alla base della nuova piattaforma domestica proposta da Commodore. Meno significativo il “20” abbinato a Vic, peraltro in Giappone la stessa macchina era venduta come Vic-1001. Ma sui nomi dei prodotti, si sa, spesso contano più eventuali giochi di parole e scaramanzie varie che altro, per non parlare di temibili assonanze con altri termini. Lo stesso Vic-20 in Germania divenne VC-20, per evitare imbarazzi sulla pronuncia tedesca “fick”, che significa tutt’altro. E non quello che state pensando, ma molto peggio! (citofonare Google Translate)
Il chip MOS 6560/6561, detto VIC, è antecedente addirittura di qualche anno all’home computer Vic-20. Come ci ricorda la magnifica Zia Wiki inglese, «è stato originariamente progettato per applicazioni come terminali CRT a basso costo, monitor biomedici, display di sistemi di controllo e console per videogiochi arcade o domestici». A dispetto della V nella sigla, si occupava non solo del video ma anche dell’audio digitale a quattro canali, consentiva accessi DMA alla RAM, integrava due convertitori A/D e, immancabile ciliegina, poteva finanche gestire una penna ottica per iterazioni simil-touch con lo schermo.
Il Vic-20 nasceva con il minimo sindacale di ROM (20 KB) e una quantità indecente di RAM: appena 5 KB di cui 3,5 disponibili all’accensione per il Basic. Chi non ricorda, infatti, quel poco rassicurante “3583 BYTES FREE”, seguito dallo sfottò del “READY” subito sotto?
Ma cosa ridi???
Naturalmente la macchina era molto espandibile, grazie a uno slot posteriore in grado di ospitare tanto espansioni RAM quanto ROM, in particolare giochini ma soprattutto estensioni di funzionalità. Tra queste l’attivazione della grafica a pixel (non inclusa di base, ma comunque attivabile con utility sw disponibili anche su MC) o l’accesso semplificato al linguaggio macchina che offriva potenzialità inimmaginabili con il solo Basic a corredo. Più schede potevano essere utilizzate insieme o tramite un gigantesco box metallico offerto inizialmente da Commodore o con le numerose proposte terze parti - nessuna esclusa, ehm! - che risolvevano più economicamente il problema di come sfruttare al meglio il piccolino.
Già, perché a quei tempi un home computer - se non volevi utilizzarlo stupidamente come consolle per videogiochi - non bastava acquistarlo e collegare i vari pezzi: alimentatore, TV in veste di monitor, registratore a cassette. Nella maggior parte dei casi bisognava rimboccarsi le maniche (e i neuroni) per scrivere in proprio i programmi da utilizzare: questo NON era un limite, anzi! Molti si sono fatti le ossa su macchine come queste, in alcuni casi spingendo parecchio sull’acceleratore. Ad esempio sbloccando gratuitamente funzionalità nascoste, come la grafica ad “alta” risoluzione prima citata, o affacciandosi in territorio quasi-AI (oggi tanto di moda) con giochi da scacchiera come l’Othello e le sfide uomo-macchina o la risoluzione, automatica, del cubo di Rubik.
Come può certamente testimoniare il mio, amato, Vic-20.