Articolo pubblicato sul n. 171 di
MCmicrocomputer
(Edizioni
Technimedia Srl - Roma) nel marzo 1997
Digital
Imaging:
Colore... COLORE!!!
(seconda parte)
di Andrea de Prisco
Lo scorso mese, per entrare nella maniera piu' "soft"
possibile nel mondo della colorimetria, abbiamo addirittura
scomodato l'occhio umano e il suo funzionamento di base.
L'abbiamo coraggiosamente paragonato ad una moderna
telecamera a colori
(e' evidente che sarebbe molto piu'
sensato il paragone opposto!) e sono stati indicati i
concetti base della sintesi cromatica additiva e
sottrattiva. Il tutto non mirato (come certamente vi
attendete) a stancarvi con noiose elucubrazioni
pseudoteoriche, ma per sviscerare quanto piu' possibile uno
dei maggiori problemi che si incontrano nel trattamento
digitale delle immagini. L'abbiamo gia' introdotto lo stesso
mese (e chissa' quante altre volte lo ripeteremo...) ma il
problema maggiore, quando si trattano "in digitale" le
immagini fotografiche, non e' la risoluzione grafica ma la
fedelta' cromatica. E' molto meglio un'immagine in cui sia
rispettata quanto piu' possibile la corrispondenza dei
colori con l'originale (finanche a scapito della risoluzione
reale) piuttosto che contare esclusivamente sul numero di
punti effettivamente riconoscibili ovvero sulla definizione
globale. Se poi e' possibile ottenere entrambe le cose,
tanto meglio, ma se (per qualsiasi motivo) dobbiamo
rinunciare ad una delle due caratteristiche, finche' siamo
in cerca della tanto attesa qualita' fotografica, dobbiamo
metterci in testa che dovremo concentrare maggiormente i
nostri sforzi sull'aspetto "fedelta'".
Partendo da un originale fotografico, su carta, su pellicola
diapositiva o negativa, il trasferimento dell'immagine sul
computer e', come noto, solo il primo elemento della catena
fotodigitale. L'immagine, digitalizzata, e' trasferita nella
memoria del computer dove puo' essere utilizzata in vario
modo. Gia' alla semplice visualizzazione su monitor, se non
prendiamo gli opportuni provvedimenti, possiamo avere brutte
sorprese. Tinte slavate o colori troppi saturi, basso o
eccessivo contrasto, luminosita' esagerata o grigiore
congenito... e giu' a imprecare contro il dispositivo di
input: "Questo scanner vale la meta' di un tubo!".
Eppure lo scanner, qualunque esso sia, e' responsabile solo
per un terzo del complessivo disastro. Sottovalutiamo,
infatti, che tra questo e la nostra percezione visiva c'e'
ancora di mezzo la scheda video (che ha il compito di
trasformare i dati digitali in segnali analogici per la
visualizzazione) e il monitor (utilizza questi ultimi per
mostrare, realmente, l'immagine ai nostri occhi).
Se vediamo un'immagine poco gradevole, la colpa puo' essere
(con pari probabilita') di ognuno dei tre dispositivi
implicati nel fattaccio. Provate ora ad immaginare cosa
succede se stampiamo la nostra immagine. Con un sistema non
calibrato, riuscire ad ottenere nuovamente su carta i colori
originali (o quelli che abbiamo generato noi in seguito ad
una, auspicabile, fotoelaborazione digitale) equivale a
vincere un terno secco al lotto: chi si e' occupato, anche
solo marginalmente, di fotografia digitale conosce fin
troppo bene la tragicita' del problema. Alla ben nota
aleatorieta' dello scanner, della scheda video, della resa
cromatica del monitor bisogna aggiungere il comportamento
del driver di stampa e della periferica di uscita vera e
propria: carta utilizzata, inchiostri, modalita' di
utilizzo, ecc. ecc.
Piu' che utenti di personal computer si finisce per
diventare veri e propri domatori di dispositivi. Che brutte
bestie...
Calibrare si puo'...
Assunto che, tra originale fotografico e risultato finale su
carta e' frapposta una complessa catena di dispositivi,
ognuno responsabile in parte del trasporto della fedelta'
cromatica, ci si pone il problema di come uscire vivi da
questo circolo vizioso.
Cominciamo dallo scanner. Qualunque sia il suo formato, la
sua fascia di prezzo, la tecnologia utilizzata per la
digitalizzazione, una cosa e' certa" avra' un modo "tutto
suo" di interpretare (di leggere) i colori. Sbagliato o
corretto che sia, e' assolutamente necessario che il
sistema, l'intera catena fotodigitale, sia a conoscenza del
suo comportamento cromatico. Deve, in altre parole, sapere
in che modo vengono codificate le varie tinte. Quel
particolare giallo paglierino sara' codificato in questo
modo, il rosso scarlatto in quest'altro, il blu cobalto
cosi', il rosso pomodoro... pomi'. Naturalmente non e'
possibile partire dai colori in genere cosi' come siamo
abituati a chiamarli (non penserete mica che esiste un unico
blu cobalto!), ma e' necessario partire da tinte campione di
cui e' nota la ricetta cromatica. Esistono in commercio
delle tabelle di test formate da svariati quadratini
colorati, stampate su carta fotografica con la massima cura
e testate una per una con appositi spettrofotometri
professionali. Con la tabella di test e', normalmente,
fornito un dischetto contenente i reali valori letti dallo
strumento professionale sicche' e' possibile sapere con
esattezza l'effettiva composizione dei colori indicati.
Tramite un software di calibrazione, abilitato per
utilizzare la tabella test di cui sopra, si sottopone ad
"esame cromatico" lo scanner: inserita la matrice di colori
sul piano di lettura, il software di calibrazione (che sa
esattamente quei colori come sono fatti) analizza il
comportamento del dispositivo. Magari scoprendo che la tinta
XYZ viene letta come X'Y'Z', e lo stesso (con differenze
diverse) avviene praticamente per tutti i colori rilevati.
Confrontando, subito dopo, i valori letti dallo scanner con
i dati reali contenuti nel dischetto, il software di
calibrazione e' in grado di costruire il profilo cromatico
dello scanner semplicemente (si fa per dire...) effettuando
una sottrazione tra le due tabelle. Ci siamo quasi:
digitalizzato ora un originale fotografico qualunque e'
possibile "rimappare" la lettura teste' effettuata nei
valori calibrati tenendo conto delle differenze rilevate in
sede di calibrazione. Naturalmente le tabelle test non
contengono tutte le tinte possibili ed immaginabili ma un
ristrettissimo sottoinsieme: un centinaio di valori o poco
piu'. Un altro compito del software di calibrazione sara',
ovviamente, quello di interpolare i dati letti in modo da
stimare il comportamento del dispositivo anche per le tinte
intermedie non contenute nella cartina di test. Solo cosi'
potremo esser certi di non aver letto fischi per fiaschi...
e per quanto riguarda lo scanner siamo a posto.
Il secondo problema riguarda la visualizzazione sul monitor.
Assunto che la nostra immagine digitale, grazie all'utilizzo
del profilo cromatico "vero" del dispositivo utilizzato, sia
corrispondente all'originale fotografico, nel momento in cui
la visualizziamo a video non dobbiamo permettere che il
monitor massacri nuovamente il tutto. Tornando all'esempio
di prima, la tinta XYZ (letta dallo scanner come X'Y'Z' ma
riconvertita in XYZ dal software di calibrazione) dovra',
per quanto possibile, essere visualizzata come l'XYZ
originale e non in altro modo (X''Y''Z'', tanto per essere
originali). Ovvero, a quel valore digitale cromatico,
ottenuto dalla lettura calibrata di una determinata tinta,
deve corrispondere anche su monitor (e ricordatevi che c'e'
sempre di mezzo la scheda video) la stessa tinta e non
"qualcosa che vi assomigli".
La calibrazione del monitor e' un po' piu' dolorosa di
quella dello scanner in quanto non e' sufficiente una
cartina cromatica e un software ma e' coinvolto nella
riuscita del procedimento nientepopodimeno che il sistema
operativo della macchina utilizzata ed e' necessario
utilizzare un colorimetro esterno per effettuare la
calibrazione vera e propria. Oltre a questo, il monitor deve
essere stabile, fluttuando
il meno possibile all'interno del suo spazio cromatico,
evitando in altre parole di avere comportamenti "troppo
diversi" nell'arco della giornata. Il sistema operativo
della macchina deve, inoltre, avere una propria coscienza
cromatica: deve essere in grado di gestire i profili di
calibrazione di monitor e scheda video, pilotando
opportunamente quest'ultima per visualizzare i colori
correttamente. Anche in questo caso si utilizza un software
di calibrazione che visualizza colori campione sul monitor
e, contemporaneamente, legge tramite il colorimetro le tinte
effettivamente visualizzate. E costruisce anche per il
monitor (in realta' per l'accoppiata scheda video+monitor)
il profilo cromatico del dispositivo: una nuova tabella di
conversione con la quale i colori verranno visualizzati
correttamente dal nostro monitor.
Prima di proseguire con la fase di stampa vediamo finora
quel che e' successo. Siamo partiti da un originale
fotografico e abbiamo ottenuto a video la sua corretta
visualizzazione dopo un'altrettanto corretta
digitalizzazione tramite scanner. Per semplicita'
focalizziamo la nostra attenzione sulla tinta XYZ che,
finalmente, vediamo tale anche su monitor. Lo scanner, come
detto precedentemente, legge la tinta XYZ come X'Y'Z'.
Appena letta l'immagine, il software di gestione del
dispositivo, che tiene conto del profilo cromatico costruito
dal software di calibrazione con l'utilizzo della cartina
test, converte automaticamente il dato X'Y'Z' nel corretto
XYZ. Ora l'immagine digitale e' nella memoria del nostro
computer pronta per essere visualizzata. Lo stesso avviene
in questa fase: visto che la tinta XYZ viene mostrata a
video come X''Y''Z'' e' necessario un secondo intervento
correttivo (sicuramente diverso dal primo) per riaggiustare
nuovamente i colori. Con una nuova trasformazione cromatica,
i colori codificati in memoria sono rimappati secondo il
profilo cromatico del monitor per ottenere le tinte esatte
in visualizzazione.
Posto che sia chiaro tutto il ragionamento, proviamo ad
andare avanti. Il terzo problema, come noto, lo ritroviamo
in fase di stampa. Se la nostra macchina non e' (al pari
dello scanner e del monitor) un dispositivo calibrabile ben
difficilmente potremo ottenere, in uscita su carta,
risultati soddisfacenti. La calibrazione della stampante e'
simile a quella relativa all'accoppiata monitor+scheda
video. Tramite un analizzatore colore (simile a quello
utilizzato per quest'ultimi ma in grado di leggere le tinte
per riflessione) si effettua la lettura di una tabella test,
disponibile in questo caso in formato digitale, stampata
tramite la periferica d'uscita a colori da calibrare. E, in
pratica, succede esattamente la stessa cosa del caso
precedente. Il software di calibrazione conosce la natura
della tabella, quadratino per quadratino tutti i colori che
"dovrebbero" essere stampati, analizza tramite il
dispositivo di lettura la tabella stampata e... si rende
conto del comportamento cromatico della stampante.
Costruisce (ancora una volta) un profilo di calibrazione di
quel dispositivo, in pratica un'ormai consueta tabella
numerica in cui e' radiografato il suo comportamento.
Tramite questa, quando stamperemo un'immagine, il software
utilizzato per la stampa dovra' effettuare le necessarie
conversioni (rimappatura) per rendere al meglio il risultato
su carta.
Guerra di indipendenza
I lettori piu' smaliziato avranno certamente intravisto,
nell'indicazione dei colori tipo XYZ, X'Y'Z', X''Y''Z''
utilizzata precedentemente, la consueta notazione RGB (Red,
Green, Blu, rosso, verde, blu) usata da molti programmi di
grafica per la codifica cromatica. Ne abbiamo anche parlato
brevemente lo scorso mese (in contrapposizione alla codifica
CMY o CMYK della stampa) e riguarda principalmente i colori
dei monitor e la lettura degli scanner. Normalmente la
codifica RGB "contempla" 256 valori per componente, con i
quali e' possibile codificare i canonici 16.7 milioni di
colori (i famosi 24 bit/pixel). Sappiate, comunque, che 256
livelli per colore (8 bit) sono appena sufficienti per la
visualizzazione decente di immagini fotografiche ben
equilibrate ma mostrano evidentissimi limiti con le immagini
ricche di dettagli nelle zone d'ombra e/o in nei casi in cui
e' necessario agire pesantemente sull'equilibrio cromatico
complessivo. Gia' con 30 bit/pixel (1024 livelli per
componente primaria) le cose migliorano notevolmente,
specialmente per quanto riguarda gli scanner che cominciano
a fornire risultati interessanti anche con gli originali
fotografici piu' difficili. Ma, numero di bit/pixel a parte,
la codifica RGB (cosi' come la tricromia CMY e la
quadricromia CMYK) ha un inconveniente ancor piu'
preoccupante sotto il "profilo" cromatico. Non e' stato
infatti mai stabilito, con rigore deterministico, quanto
rosso e' il rosso (idem per gli altri due colori) ne' come
questo vari in funzione del suo valore. Ad esempio, una
tinta visualizzata su un monitor potrebbe essere codificata
nel seguente modo:
Rosso 120
Verde 200
Blu 80
mentre, su un altro monitor, potrebbe essere codificata da:
Rosso 110
Verde 210
Blu 100
Lo stesso ragionamento vale per gli scanner e, in generale,
per tutte le periferiche che utilizzano codifiche di questo
tipo. Si usa dire, in questi casi, le la codifica cromatica
e' "device dependent" ovvero dipende dal dispositivo. Quel
determinato colore viene codificato in quei determinati
valori da quel determinato dispositivo. Se utilizziamo un
dispositivo diverso, lo stesso colore sara' codificato
diversamente. Attenzione: non per l'imprecisione di
funzionamento di questo o di quell'apparato, ma solo perche'
la codifica RGB non e' assoluta. E' un po' quello che
succede con i vestiti e le fantomatiche taglie "XL", "L",
"M", "S" (e a ben vedere succede la stessa cosa anche con i
valori numerici): non e' mai stato stabilito quanto "extra
large" debba essere la taglia XL ne' quanto questa sia piu'
grande della L. Ogni produttore fa a modo suo e non possiamo
certo addebitargli una colpa (almeno fintantoche' non
scopriamo che la sua XL e' piu' piccola della sua L!).
Codifichiamo il colore
Il problema principale, come avrete ormai intuito, e'
riuscire a codificare l'informazione colore senza
appoggiarci al comportamento specifico di un determinato
dispositivo. Gia' ad inizio secolo (quando di dispositivi di
questo tipo non se ne parlava nemmeno nei libri di Giulio
Verne), Albert H. Mansell ideo' un modello di
classificazione cromatico basato sugli attributi tinta,
saturazione, luminosita' dei colori. La tinta... e' il
colore: rosso, verde, giallo, blu, indaco, ecc. ecc.; la
saturazione e' il suo grado di purezza (quanto piu' un
colore e' puro, tanto piu' si differenzia dal grigio); la
luminosita', banalmente, rappresenta la caratteristica di
essere piu' o meno chiaro. Nella sua classificazione,
Mansell utilizzo' cinque colori principali alla loro massima
saturazione (rosso, giallo, verde, blu, viola) e le cinque
tinte intermedie (rosso-giallo, giallo-verde, verde-blu,
blu-viola e viola-rosso) disponendole su una circonferenza.
Al centro della circonferenza, nella terza dimensione e'
posizionato l'asse dei livelli di grigio, dal bianco al
nero. Le tinte codificate con questo schema variano la
saturazione dall'esterno della circonferenza verso l'interno
(al centro la saturazione e' nulla e troviamo l'asse dei
livelli di grigio) mentre sono piu' o meno luminose salendo
o scendendo nella terza dimensione.
Un sistema attualmente molto utilizzato per codificare i
colori e' detto HSB (hue, saturation, brightness) e si
ispira fortemente all'atlante cromatico di Munsell. La ruota
dei colori e' formata, semplicemente, dai tre colori primari
della sintesi additiva (rosso, verde, blu) e dai tre colori
primari della sintesi sottrattiva (ciano, magenta, giallo).
Ad ogni colore e' contrapposto il suo colore complementare,
sicche' la sequenza ciclica della tinta lungo la
circonferenza, partendo dal blu e procedendo in senso
orario, e' la seguente:
blu, ciano, verde, giallo, rosso, magenta.
Nel modello HSB, come avveniva nell'atlante di Munsell, sul
perimetro esterno della circonferenza troviamo i colori alla
loro massima saturazione. Man mano che ci spostiamo verso il
centro la saturazione diminuisce e ci avviciniamo alle tinte
acromatiche (i grigi). I colori possono essere codificati
sottraendo la componente luminosita' e individuandoli nella
ruota dei colori tramite i valori hue (tinta, posizione
lungo la circonferenza) e saturazione (distanza dal centro).
In realta' anche il modello HSB non e' assoluto ma dipende
dal comportamento del dispositivo che visualizza o comunque
tratta i colori codificati in questo modo.
L'unico modo per uscirne vivi e' quello di riferirci
all'unico dispositivo universale degno di essere preso in
considerazione: l'apparato visivo umano. Per codificare i
colori, nel primo dopoguerra gli inglesi Wright e Guild
compirono numerosi esperimenti colorimetrici su un vasto
campione di osservatori. La macchina utilizzata negli
esperimenti aveva un funzionamento piuttosto semplice: il
colore da misurare e' illuminato da una sorgente di luce
bianca simile all'illuminazione solare. L'osservatore,
regolando tre fasci luminosi rosso, verde, blu, doveva
trovare la tripletta di valori con i quali si otteneva il
colore osservato. In seguito agli esperimenti furono notate
due cose piuttosto importanti. La prima riguardava una
sufficiente coerenza nei risultati si' da pensare che
l'apparato visivo umano avesse un comportamento piuttosto in
accordo tra individuo e individuo, la seconda (piu'
importante) fece emergere l'impossibilita' di individuare
determinati colori semplicemente regolando le tre componenti
cromatiche additive. Per alcune tinte, infatti, era
necessario aggiungere un colore primario al campione
osservato prima di riuscire ad ottenere la tripletta di
componenti che lo riproducesse perfettamente. Da questa
osservazione, due le possibili cause: o i colori primari
utilizzati e tra loro miscelati non erano in grado di
generare tutte le tinte, oppure i nostri sensori cromatici
dell'occhio avevano per certe lunghezze d'onda un andamento
negativo.
Si dovette aspettare fino al 1931(data fatidica per la
colorimetria) anno in cui la CIE (Commission Internationale
de l'Eclairage) mise a punto una codifica cromatica che
comprendesse tutti, ma proprio tutti!, i colori esistenti in
natura e, in quanto tali, osservabili dall'occhio umano. Fu
definito cosi' l'Osservatore Standard, l'Illuminante
Standard ma soprattutto furono "inventati" tre colori
primari immaginari ipersaturi (non osservabili), battezzati
con notevole sforzo di fantasia X, Y, Z, con i quali era
finalmente possibile generare tutti i colori possibili e
immaginabili.
Stop!
Anche questo mese siamo costretti ad interrompere "nel bel
mezzo" la nostra allegra chiacchierata cromatica. Vi diamo
pero' appuntamento alla prossima puntata, dedicata
principalmente al diagramma di cromaticita' CIE, al suo
utilizzo in qualita' di "carta geografica del colore", alle
sue implicazioni ed evoluzioni nel mondo della grafica e del
trattamento cromatico. Intanto, pero', sappiate che tutto
"il colorato" che vedete pubblicato in queste pagine ha ben
poca affinita' col mondo reale in quanto stampato in
quadricromia CMYK che, come noto, riesce a riprodurre solo
un ristrettissimo sottoinsieme delle tinte reali. Dello
stesso diagramma di cromaticita' CIE che vi mostreremo il
mese prossimo, non abbiamo timore ad ammetterlo, potrete
solo averne un'idea di massima in quanto esso stesso non e'
assolutamente stampabili o riproducibile. Almeno con i mezzi
attuali... in futuro, chissa'!
Articolo pubblicato
su
www.digiTANTO.it - per ulteriori informazioni
clicca qui
|