dT n. 09/2025 del 09.01.2025
Cornice stile Ritorno al futuro
MAR 15 1923


Immagine di apertura

L’enigma di Enigma

Nata nel 1923 e «crackata» qualche anno dopo, in Polonia nel 1932 per la versione esistente a quell’epoca, e grazie a Turing in UK negli anni quaranta per quella «più cattiva», è stata centrale nel conflitto bellico della seconda guerra mondiale.

Non me ne vogliano studiosi ed esperti, ma a mio modestissimo avviso la macchina Enigma non era tutto questo granché. Un po’ di anni fa, quando ha iniziato a incuriosirmi, cercando di capirne di più… rimasi un po’ deluso. In altri termini non riuscii a trattenere un sonoro e dubbioso «tutto qui???».

Immagine_inlineGià, perché la geniale Enigma, e lo scrivo senza ironia, stringi stringi non faceva altro che mettere in contatto (nel senso letterale del termine) i pulsanti di una tastiera con altrettante lampadine. I primi corrispondevano alle lettere da codificare, le seconde a quelle codificate. Si illuminavano secondo uno schema prefissato e al contempo dinamico, ovvero si modificava (ma sempre in maniera prefissata) carattere dopo carattere digitato. Ad ogni pressione di un tasto, per intenderci, cambiavano i collegamenti con le lampadine, tant’è che pigiando ad esempio tre volte di seguito la lettera A avremmo ottenuto in uscita tre valori diversi, tipo G I W, conseguenza (dinamica) delle tre A digitate.

Immagine_inlineInoltre, per rendere più forte la cifratura, nella parte frontale della macchina era presente una plugboard con la quale, tramite cavetti, si potevano scambiare a piacimento alcune lettere, cosa che portava a quasi 160 miliardi di miliardi le combinazioni di possibili percorsi tra ingressi, i tasti, e uscite, le lampadine.

La forza di Enigma e la sua presunta inviolabilità erano dunque dovute proprio al numero «mostruosamente alto» di permutazioni, che i collegamenti così articolati di cui sopra generavano. Nel dettaglio, la parte dinamica utilizzava una serie di ruote di cifratura, ognuna delle quali metteva in contatto 26 input con altrettanti output, secondo uno schema di cablaggi interni. Per fare un esempio, potevano connettere l’ingresso 1 con l’uscita 4, il 12 con 23, il 14 con l’8 e così via. Avanzavano di un passo dopo ogni codifica ed erano tra loro legate da un meccanismo di riporto stile contachilometri: dopo il 26° passo del primo rotore avanzava di uno scatto il secondo e così dopo 26 step di quest’ultimo si incrementava il terzo. Spesso immobile perché avanzava solo dopo 26×26 (676) caratteri immessi.

Immagine_inlineL’ultima ruota, detta riflettore, previa un’altra mischiatina dei contatti interni, «abbondandis abbondandum», rispediva il segnale alle lampadine, instradandolo su un diverso percorso e facendolo passare di nuovo per quelle di cifratura. Ciò garantiva, di conseguenza, che nessuna lettera potesse essere codificata con se stessa, caratteristica che poi s’è rivelata essere uno dei talloni d’Achille della macchina, utile per la sua sconfitta.

Riassumendo, le frullate totali dei caratteri erano quindi ben più di tre, il numero di ruote utilizzate. Inoltre, per quanto l’instradamento del segnale fosse ben articolato, all’istante t il collegamento elettrico tra il tasto δ e la lampadina, nomen omen, λ era sempre biunivoco. Tant’è che la macchina, note al mittente e al destinatario le impostazioni iniziali (le ruote da utilizzare di volta in volta, tre o quattro a scelta tra le cinque o otto disponibili, e la posizione di partenza delle stesse, info valide solo per un giorno) codificava o decodificava simmetricamente. Se l’A A A di cui sopra generava G I W, queste tre lettere, digitate su un’altra Enigma con le medesime impostazioni iniziali, avrebbe restituito il valore in chiaro A A A… proprio come se stessimo criptando G I W a favore del nostro interlocutore.

Fu grazie ai servizi segreti francesi, e all’aiutino di qualche tedesco, che si conobbe il funzionamento della macchina e il numero di rotori previsto. Questo permise di calcolare il quantitativo di combinazioni possibili, visto che l’unico modo per decriptare i messaggi era quello della forza bruta: procedere con ripetuti tentativi, utilizzando i calcolatori elettromeccanici in voga a quei tempi, fino a trovare le chiavi di decriptazione… partendo da alcuni frammenti di messaggio dal significato potenzialmente noto. Ad esempio dagli ultimi caratteri, dove si presumeva fosse riportato il consueto e infausto «Heil Hitler!».

In chiaro: com-bli-men-di!!!

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