dT n. 10/2025 del 10.01.2025
Cornice stile Ritorno al futuro
JAN 15 1943


Harvard Mark I, il belvo

Per citare IBM in persona, «L’Automatic Sequence Controlled Calculator (ASCC) - noto anche come Harvard Mark 1 - era il più grande calcolatore elettromeccanico mai costruito e il primo calcolatore digitale automatico negli Stati Uniti».

Immagine_inlineEra geologica e tecnologie disponibili sono le stesse del compatto Z1 di  Konrad Zuse. In questo caso si tratta di un bestione, altrettanto elettromeccanico, concepito negli anni trenta da Howard H. Aiken, fisico teorico all'Università di Harvard, finanziato, sviluppato e costruito da IBM durante la seconda guerra mondiale.

L’investimento complessivo, sempre fonte IBM, fu di 200.000 dollari di allora per il progetto, più altri 100.000 bigliettoni verdi devoluti ad Harvard per il disturbo (le spese operative dell’ASCC). Fu consegnato non prima dell’agosto 1944, con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia per via di… impegni urgenti: la seconda guerra mondiale in corso e le altre richieste che questa comportava. Succede!

Come ci racconta Zia Wiki, più specificatamente, «… durante la seconda guerra mondiale rimase a disposizione unicamente della Marina degli Stati Uniti. In seguito, come da accordi precedenti, venne ceduto dalla stessa IBM all'Università di Harvard dando notizia ufficiale a mezzo stampa della donazione. Quest'ultimo fatto ebbe vasta risonanza mediatica e il ruolo di comparsa minore in cui venne relegata la IBM, in quella occasione, suscitò grandi polemiche e attriti». Immagine_inlineTra questi ultimi anche qualche retromarcia sul nome definitivo, al quale venne aggiunto un iniziale Aiken, il cognome dell’ideatore, accanto a IBM e un Mark I alla fine. In totale: Aiken - IBM Automatic Sequence Controlled Calculator Mark I. Tanta roba!

Era composto esclusivamente da interruttori, relè, alberi di rotazione, frizioni, leve, ingranaggi, bielle, per un totale di circa 765.000 componenti interconnessi - tenetevi forte! - da ottocento chilometri di cavi, ovviamente tutti stesi e collegati a mano. E se è vero (dicono tutti così…) che le dimensioni non contano, il belvo in questione si sviluppava per 16 metri di lunghezza e quasi 2 e mezzo d’altezza, per una profondità di 50 cm. Anche il peso non era trascurabile, arrivando a quattro tonnellate e mezzo. Salute!

Vista la stazza e la complessità non vi erano certo manovelle di cortesia a spingerlo, come avveniva per lo Z1, ma provvedeva a questo un bel propulsore elettrico da 4 kW che, per mezzo di un albero motore lungo 15 metri, praticamente l’intero sviluppo orizzontale complessivo, sincronizzava le unità calcolatrici di base. Immagine_inlineImpressionanti anche gli altri numeri, sui quali non è pietoso tacere: tre milioni di connessioni per i cavi prima citati, 3.500 relè multipolari con 35.000 contatti, 2.225 contatori, 1.464 interruttori a dieci poli, giusto per citare le cose più evidenti…

Nonostante questo, l’intero marchingegno era in grado di memorizzare appena 72 numeri di 23 cifre in base 10 e riusciva ad eseguire tre addizioni o sottrazioni al secondo, una moltiplicazione in 6 secondi, una divisione in 15,3 e un logaritmo oppure una funzione trigonometrica in più di un minuto. Nel frattempo conveniva sorseggiare qualcosa o dare, visti i tempi non proibizionistici di allora (non si erano ancora svegliati), qualche pensieroso, di certo non salutare, tiro di sigaretta.

Leggeva istruzioni e dati da elaborare da distinti nastri di carta perforata. Inoltre il programma non veniva caricato in memoria, e le istruzioni erano eseguite al volo man mano che erano lette. Secondo alcuni - ma la cosa non è universalmente riconosciuta - inaugurò quella che ancora oggi conosciamo come Architettura Harvard, contrapposta alla più diffusa Architettura von Neumann (nella quale dati e programma condividono un’unica memoria).

Da segnalare infine che i loop del codice si «implementavano» fisicamente con nastri perforati in cui le due estremità erano, semplicemente, unite ad anello… probabilmente con un umile pezzo di carta adesiva. Per i salti condizionati, viceversa, era necessario un intervento manuale dell’operatore che, altrettanto semplicemente, riposizionava il nastro perforato nel punto richiesto.

Che tempi!

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